lunedì 6 ottobre 2025

Terra, vento, mare: la mia Sardegna

Sardegna: una terra antica, identitaria, riservata, in cui ancora è viva e tangibile la presenza delle sue antiche civiltà matriarcali, che ancora oggi lasciano tracce nei riferimenti alla Dea Madre e nelle figure folkloristiche che ne incarnano i vari aspetti — fanciulla, madre, anziana.

Pur portando un cognome sardo, non ho radici familiari dirette sull’isola. So di alcuni parenti nella zona nord, ma si tratta di cugini acquisiti, di un ramo lontano della famiglia, con un cognome completamente diverso.

Dove vivo, il mio cognome è piuttosto comune e viene considerato emiliano. Eppure basta leggerlo per capire che c'è qualcosa di diverso rispetto a quelli della mia zona. 

E anche se non fosse davvero sardo, questo legame con l’isola esisterebbe comunque. Ne sono certa. C’è qualcosa di intuitivo, ancestrale, se non proprio genetico.

È la pelle d’oca quando sento intonare A diosa (meglio conosciuta come No potho reposare), o il brivido che mi attraversa leggendo certi scritti di autori sardi.
È il ricordo del profumo che ho sentito la prima volta che il traghetto si è avvicinato all’isola - un profumo che non ho mai ritrovato altrove.
È quel battito accelerato nel momento in cui sono sbarcata, pensando: “Qui, da qualche parte, c’è casa mia.”
Perché l’appartenenza a un luogo non è solo questione di nascita. È anche (forse soprattutto) questione di scelte, di vissuto, di connessione emotiva.

Il Pan di Zucchero (foto recuperata da Pinterest)

 I ricordi più vividi che ho della Sardegna sono i suoi profumi e i suoi colori.
Il verde argentato degli ulivi, che sembrano ondeggiare anche quando l’aria è ferma.
Il blu profondo del mare, che si fonde col cielo e ti fa sentire parte di qualcosa di immenso.
Il bianco accecante delle rocce, quasi lunare, in contrasto con le ombre fresche della macchia.
Il rosso caldo della terra, viscerale, potente, come il grembo della Madre.

Ricordo il lungo viaggio in treno da Olbia a Cagliari, tagliando a metà l’isola e attraversando paesaggi da cartolina, sospesi nel tempo: pecore — tante pecore — e nuraghi in lontananza.

La musica folk sarda mi parla, quasi come se mi conoscesse. Evoca in me sensazioni che faccio fatica a spiegare. È come se fossero ricordi di qualcun altro che cercano di affiorare nella mia mente, ma non riescono del tutto. Probabilmente è solo suggestione, eppure la sensazione è proprio quella.

Se mi dicessero che nel mio cognome si nasconde una storia mai raccontata, ci crederei.
Dalle ricerche che ho fatto, l’origine sembra risalire a Villacidro, il paese delle streghe per eccellenza. E allora chissà, magari davvero una mia antenata era una strega. Si spiegherebbero molte cose!

A volte mi chiedo: e se io, invece che in queste terre alluvionali, fossi nata in Sardegna, magari su un ventoso altopiano?
Sarei la stessa persona o completamente diversa?
Di certo avrei un altro rapporto con la natura. Sarei più gentile con il vento, con cui oggi faccio fatica ad andare d’accordo, avrei più rispetto per la pioggia, amerei e odierei il mare allo stesso tempo.
Ma sono sicura che il mio amore per la terra, le rocce e le piante sarebbe lo stesso.
Se non addirittura più forte.

domenica 5 ottobre 2025

࿐ ࿔*:・゚🍂🍃༄ Fabiana

In un post precedente avevo accennato al fatto che, probabilmente, avrei dedicato qualche abbozzo di scriuttura ad alcune immagini che durante la mia breve vacanza appenninica mi erano rimaste impresse. Non sono racconti, sono proprio fotografie, all'interno delle quali c'è un pochino di più del semplice "vedere" ed "ascoltare". Magari a qualcuno fa piacere leggerli. Sicuramente non hanno nè capo nè coda. Li si prendano semplicemente per ciò che sono. Li raggrupperò (sempre se ce ne saranno altri) sotto l'etichetta "Fotografie".  

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Fabiana è un'artista. Vive in un appartamento mansardato a Rio d'Oro, un borgo situato a 800 metri sul livello del mare, e quando apre le finestre le pare quasi di toccare il cielo con un dito. 

Come ogni artista che si rispetti - e sfido chiunque a dire il contrario - nel suo "caos organizzato" trova sempre tutto ciò di cui ha bisogno: tele, pennelli, tempere e acquerelli, matite, fogli volanti, macchine fotografiche di ogni epoca, obiettivi riposti con cura, gomme smangiucchiate, mazzi di tarocchi. 

A Rio d'Oro non c'è nata o cresciuta. Si è semplicemente ritrovata lì, per caso, un pomeriggio di cinque anni fa, nella sua unica settimana di ferie, seguendo una rotta non segnata, una piccola voce nel suo subconscio. Una volta scesa dall'auto ha sentito l'aria del borgo entrarle nei polmoni e accarezzarle la pelle, mentre il profumo dei biscotti di farina di castagne giungeva dalla panetteria aperta. Tutto ha avuto inizio così, in quel momento. 

🍁༄˖°.🍂.ೃ࿔*:・🍁

Oggi è il primo martedì di settembre. L'estate sembra aver già ceduto il passo all'autunno, e un'atmosfera frizzante, colorata di foglie cadute e ultimi fiori di lavanda, permea le vie del borgo.
Fabiana, seduta a uno dei tavolini esterni del Bar del Poggio, sta sorseggiando un aperitivo insieme a un uomo di temperamento allegro, mentre ai suoi piedi, accucciato, riposa il suo cane, un meticcio nero dal muso lupino.

Una lieve folata di vento le fa scendere sul viso una ciocca ribelle. Quei lunghi capelli castani, né lisci né ricci, quanto li odiava da ragazzina! Li aveva colorati in mille modi diversi e acconciati in altrettante fogge, passando dalla piastra ai bigodini e concludendo il percorso di guerra con un look alla Soldato Jane.

Sbuffa un po’, si risistema le chiome, mentre i braccialetti color bronzo che porta al braccio destro tintinnano leggermente tra loro. Quel suono allegro, che ricorda vagamente i campanelli, ha il potere di richiamare su di sé lo sguardo di una coppia di giovani turiste, sedute al tavolo diametralmente opposto. Avranno poco più di vent’anni. I loro sguardi si incrociano per un istante e, tra le commensali, vi è un sincero scambio di sorrisi. Forse l'hanno riconosciuta e a breve le si avvicineranno per scambiare due chiacchiere.  

I dodici rintocchi del campanile chiamano a raccolta un gruppetto di scriccioli nascosti tra i rami d’abete, che spiccano immediatamente il volo. Un'immagine tenera e piena di vita che lei vorrebbe tanto poter fotografare, se soltanto uno scatto riuscisse a rendere la magia del momento. 

"Vedi", dice all'uomo di fronte a lei, puntandogli contro la cannuccia dell'aperitivo, "il mio prossimo progetto deve essere così: un volo di scriccioli nel cielo autunnale." Alza le braccia, quasi a volerlo abbracciare quel cielo. 

Lui le sorride, un sorriso perfetto, di ragazzino, e annuisce col capo. "Prova con un nuovo mazzo di oracoli, una carta per ogni giorno d'autunno. O per ogni giorno di settembre, meglio. Non esagererei con il numero". Porta il bicchiere alle labbra e con un ultimo sorso termina il drink. "Questa volta però voglio un tuo ritratto sul dorso delle carte." conclude appoggiando il bicchiere sul tavolo e alzandosi dalla sedia. "Martini o Aperol?" 

Gian è fatto così. Quando sa di avere ragione non ti lascia il tempo di replicare. 

"Martini e... Non se ne parla proprio!" risponde in fretta Fabiana, alzando il tono della voce, prima che l'uomo entri nel locale. Pur sentendosi leggermente indispettita, la sua serenità non ne è rimasta scalfita. Da quando è arrivata a Rio d'Oro, ha promesso a se stessa di meritarsi davvero quella vita, quella pace.
Prendersela per un capriccio è affare di cittadini subissati dal lavoro e in preda alle lancette. Lei ha bisogno di godere delle piccole cose. Anche delle idee malsane del suo migliore amico.

Ai suoi piedi, il cane solleva il muso e muove appena le orecchie: ha percepito un movimento e inizia a chiedersi se non sia forse giunto il momento di rincasare. Invece la sua padrona scuote leggermente la testa e si china ad accarezzarlo. Infila la mano libera nella tasca dei pantaloncini per estrarne un biscottino. Un movimento libero, naturale. Come la vita. 

E la vita, sulla strada principale di Rio d'Oro, continua a scorrere tra un cinguettio, il fumo di una sigaretta, il tintinnare dei braccialetti ed il brusio dei passanti.  

sabato 4 ottobre 2025

Diari e lettere: la scrittura slow

Qualche giorno fa raccontavo di come la mia adolescenza fosse stata salvata dalla musica e dai miei amici di penna.

Io, in realtà, di amici di penna ne ho ancora.
Non quelli di allora — i primissimi si sono persi tra traslochi, cambi di vita, caselle postali dimenticate. Ma con altri, nel tempo, si è creato qualcosa di duraturo. E ancora oggi, dopo trent’anni, ci sono lettere che attraversano la distanza e arrivano fino a me, scritte a mano, infilate in buste colorate, spesso accompagnate da piccoli pensieri: una foglia essiccata, una bustina di tè, un disegno.
Un modo di comunicare che continua a resistere, lento e prezioso, fuori dal tempo.

Scrivere lettere è diverso da tenere un blog.
Qui, su queste pagine virtuali, mi racconto - sì - ma lo faccio in una forma più aperta, rivolta a chiunque voglia leggere.
Con gli amici di penna, invece, esiste un’intimità costruita nel tempo, un dialogo che va avanti per strati, in cui ci si risponde con calma, lasciando sedimentare le parole.
È un cammino a due, fatto di confidenze, momenti di silenzio e ritorni. Un diario condiviso, ma solo tra due mani.
E no, non è la stessa cosa di un commento sotto un post, di un messaggio in direct o di una reazione su una storia.

Forse è proprio questo che rende così speciale l’amicizia epistolare: la sua intenzionalità.
Nessuno scrive una lettera per noia, o per riempire un momento morto.
Ci si siede, si prende carta e penna, si sceglie cosa dire. Si regala tempo. Si riceve attenzione.

Immagine Pin Storia 

E per quanto io ami scrivere anche qui, e trovare in questo spazio una forma diversa ma altrettanto vera di espressione, so bene che certe parti di me, quelle più intime, trovano casa solo in quelle lettere scritte a mano, che profumano ancora di attesa, silenzio e cura.

Poi ci sono i diari.
Ne ho avuti, eccome.
Da piccola ci ho provato più volte a tenerne uno, ma perdevo interesse abbastanza in fretta.
Non so, non mi dava granché. Forse perché scrivevo per me stessa ma non sentivo alcun dialogo, nessun ritorno. Quelle pagine restavano mute, chiuse, in un cassetto.

Tutto è cambiato però alle medie — e ancor di più alle superiori.
Lì il diario è diventato un compagno di viaggio, un oggetto vivo che non serviva solo a segnare i compiti per casa, ma che raccontava di me, delle mie giornate, dei miei mondi interiori.
Era insieme una agenda personale, un raccoglitore di emozioni e uno spazio creativo: ci incollavo testi di canzoni, stickers, foto dei miei cantanti preferiti, biglietti di concerti, ma conteneva anche dediche degli amici, autografi.
Ogni pagina era un piccolo frammento fatto di colori, di frasi sottolineate, di sogni.
E c'era qualcosa di speciale nel riaprire quelle pagine anche solo per rileggerle dopo qualche settimana, riconoscersi, sorridere, a volte vergognarsi pure delle assurdità fatte!

Ne ho avuti anche dopo le medie.
Poi, a un certo punto, ho smesso.
Non perché non avessi più nulla da dire, ma perché ho scoperto con dispiacere che mia madre li leggeva di nascosto, anche se ero ormai adulta.
Quella violazione, quel sentirsi guardata senza il proprio consenso, ha chiuso una porta dentro di me.
E da lì, lentamente, ho cominciato a scrivere altrove ed intensificare i miei rapporti epistolari.

È così che sono arrivata ai blog: uno spazio tutto mio, sì, ma pubblico. Protetto e insieme esposto.
Scrivo sapendo che qualcuno legge - e questo, paradossalmente, non mi dispiace.
Perché oggi, più di allora, scelgo io cosa mostrare, cosa tenere, cosa lasciare andare.

E forse, alla fine, è questo il filo rosso che unisce tutto: scrivere per non perdersi.
Che sia su carta, su tastiera, dentro una busta o in una pagina web, scrivo per restare e ricordare. Forse è il vero modo che ho per rimanere radicata nel qui ed ora. Più o meno, eh... Del resto la mia mente resta pur sempre una mina vagante!

venerdì 3 ottobre 2025

Piccola storia dei radiodrammi

In un mio vecchio post avevo parlato di un radiodramma a me molto caro: quello di Piccole Donne.

Con l’arrivo della stagione fredda, sento sempre più spesso il bisogno di spegnere il mondo e mettermi ad ascoltare un po’ di teatro radiofonico quando la mattina o la sera esco per fare una passeggiata con il mio pelosone. Quelle voci mi fanno compagnia, mi cullano come una fiaba, ma allo stesso tempo riescono a creare mondi meravigliosi, solo attraverso il suono.

Oggi vanno molto di moda i podcast, e proprio grazie a questo formato mi sono imbattuta in una serie di radiodrammi moderni: storie fantasy curate con grande attenzione, sia a livello interpretativo, sia nella scrittura che nella colonna sonora.
Si tratta della saga di Hellwinter, a cura di Andrea Tupac Mollica.

Ne parlerò più approfonditamente prossimamente, ma oggi vorrei spendere due parole sul radiodramma in generale.

Il "teatro alla radio" nasce indicativamente nella prima metà degli anni ’20, nel Regno Unito. Uno dei primi radiodrammi fu Danger, del 1924. Ambientato in una miniera, fu ideato per mostrare le potenzialità emotive della comunicazione via radio.

L’Italia arrivò subito dopo: una delle prime trasmissioni di prosa radiofonica (ovvero adattamenti teatrali creati esclusivamente per la radio) fu Venerdì 13 di Mario Vigliano, trasmessa il 18 gennaio 1927 dalla sede di Milano dell’EIAR.
Il primo vero radiodramma originale italiano, però, fu L’Anello di Teodosio di Luigi Chiarelli, andato in onda per la prima volta il 6 ottobre del 1929.

A seguito di queste prime sperimentazioni, che proseguirono anche nel decennio successivo, fu dopo la Seconda guerra mondiale che l’Italia visse il suo periodo d’oro, in particolar modo tra gli anni ’50 e ’70.
In quegli anni fu possibile raggiungere un pubblico più ampio grazie a una notevole qualità artistica, che attingeva a piene mani dal teatro e dalle sue nuove contaminazioni.

Foto recuperata da Pinterest

 Purtroppo, l’avvento della televisione portò a un progressivo calo degli ascolti radiofonici, relegando il radiodramma a un ruolo sempre più marginale nel panorama culturale italiano.

Fortunatamente, al giorno d’oggi esistono reti culturali - come, ad esempio, Radiotre - che mantengono vivo questo genere, il quale, come dicevo all’inizio, sembra tornare a godere di buona salute anche grazie all’avvento dei podcast.

Perché il radiodramma continua ad avere un impatto così forte su di noi?
Credo che agisca proprio su uno stimolo che la sovraesposizione alla tecnologia sta lentamente anestetizzando: il non vedere, il dover immaginare.
Sentiamo le voci, i suoni, ma non possiamo vedere nulla se non con gli occhi dell’immaginazione. E il non poter vedere, in una società completamente basata sull’immagine, è spiazzante. Quasi quanto lo fu per i primi ascoltatori degli anni ’20, quando per la prima volta una storia veniva raccontata in modo nuovo: reale, ma allo stesso tempo così intangibile.

Oggi abbiamo la possibilità di accedere a molte più risorse, non solo come ascoltatori, ma anche come creatori di radiodrammi.
Senza tirare in ballo l’intelligenza artificiale (utile, certo, per la pulizia del suono, ma non per la creazione vera e propria, come purtroppo sta accadendo nella musica e nell’arte figurativa), esistono nuove opportunità da considerare: strumentazioni più accessibili, software gratuiti, ambienti collaborativi, piattaforme di distribuzione immediata.

In un’epoca in cui tutti cercano di farsi vedere, forse è proprio il raccontare senza mostrarsi a restituirci qualcosa che avevamo dimenticato: prestare attenzione a ciò che ascoltiamo. rad

giovedì 2 ottobre 2025

Le leggende urbane degli anni 80

Noi che siamo stati bambini negli anni ’80 (ma anche negli anni ’90) abbiamo avuto un’infanzia abbastanza traumatica.
All’epoca le nostre giornate trascorse in cortile o a casa di amici - ma ancor meglio le sere d’estate all’imbrunire, sotto l’occhio vigile delle vicine di casa che facevano filò - finivano spesso con l’immancabile domanda:
“Sapete che cosa è successo a un mio amico in vacanza lo scorso anno?”

In effetti erano sempre amici, cugini o zii i protagonisti e testimoni delle situazioni più bislacche.
A volte si trattava davvero di fatti realmente accaduti, e lo capivi subito: erano divertenti, e non c’era alcuna componente horror.
Altre volte, invece, l’alone di mistero calava come una scure e ti mozzava il respiro.

Ricordo che la leggenda urbana che andava più di moda era quella della bambina pallida e vestita di bianco che bussava alla porta di casa (per lo più case di montagna o case vacanza) per chiedere un bicchiere di latte.
Quando il malcapitato rientrava in casa per prenderlo e tornava all’ingresso per porgerglielo, la bambina era sparita.
Il giorno dopo, per motivi mai del tutto chiariti, si scopriva che la bambina altro non era che un fantasma.

Immagine Pin Storia
Fotografia recuperata da Pinterest

 Ma la leggenda che preferivo - e sulla quale, poi, ho scoperto sussistere un fondo di verità - era quella legata a una villa che si trovava a pochi chilometri da dove vivevo.

Sperduta (ma non troppo) in mezzo alle campagne emiliane, veniva chiamata Villa Mastella (non era il suo vero nome, ma questo l’ho scoperto solo in tempi abbastanza recenti).
I più avventurosi, nei primi anni ’90, organizzavano veri e propri pellegrinaggi in bicicletta, cercando di avvicinarsi il più possibile e sbirciando dalle finestre per scoprire qualche mistero.
Si diceva che ci fossero i fantasmi, ma nessuno ne aveva mai visto veramente uno. Poi, qualcuno iniziò a dire di aver visto qualcosa...
Non fantasmi, ma quadri molto strani. Guardando da una finestra, infatti, aveva notato dei dipinti appesi alle pareti che rappresentavano il diavolo in persona.
Non esistono però prove fotografiche di quanto riportato dal nostro Indiana Jones dell’epoca, quindi dobbiamo attenerci esclusivamente alla sua testimonianza.

Dalle mie parti, la leggenda dell’autostoppista fantasma è arrivata dopo, verso la fine degli anni ’90.
Ce la raccontavamo alle superiori, sussurrandoci i dettagli più raccapriccianti durante la ricreazione o disegnando i momenti salienti sui nostri diari.
Così come, del resto, che in America i coccodrilli venissero fuori dalla doccia, l’ho scoperto solo grazie a Samuele Bersani.
Per me, al massimo, nelle fogne ci vivevano le Tartarughe Ninja con il buon vecchio Splinter.

Chissà quanto ci fosse di vero in tutte queste leggende, e quanto invece fosse solo frutto dell’immaginazione di qualche amico a cui piaceva avere i suoi cinque minuti di gloria raccontando cose assurde.
Un po’ come quel mio compagno delle elementari che mi disse di aver trovato uno zombie nel baule dell’auto dei suoi genitori mentre tornavano dall’Olanda.
Che già per me, l’Olanda era un luogo mitico, inarrivabile, dall’altra parte del mondo — e quindi, di per sé, pieno di misteri...
Ma ammetto che, dopo il primo brivido, mi resi conto che si trattava di una panzana colossale. Lui stesso, a dire il vero, non sembrava troppo convinto.

Oggi, sempre più presto, i bambini si ritrovano tra le mani uno smartphone e hanno accesso a tutto lo scibile del web.
Manca, a mio avviso, quell’alone di magia che da piccoli ci permetteva di credere a queste leggende, di fidarci dell’amico che ce le raccontava, anche senza video o fotografie a supporto.
E poi, diciamocelo: quelle poche immagini che giravano erano sempre sfocate, e lasciavano tantissimo spazio all’immaginazione o al classico “ma va là, non si vede niente!”

Forse dovremmo essere noi adulti a ristabilire un po’ l’equilibrio.
A lasciare che la fantasia corra, ogni tanto. A non farci inghiottire del tutto dal “tutto e subito” del web.
Perché quella magia — quella che non ha bisogno di prove fotografiche a tutti i costi —
io credo che i nostri figli e i nostri nipoti se la meritino.

mercoledì 1 ottobre 2025

Le 3 canzoni che mi hanno salvato l'adolescenza (e forse anche la vita).

A me l’adolescenza l’hanno salvata due cose: i miei amici di penna (poiché non avevo veri amici attorno a me) e la musica. Oggi vorrei parlare della musica, e in special modo delle tre canzoni che mi hanno salvato l’adolescenza.

Immagine proveniente da Pinterest

Le ricollego a un periodo non propriamente felice, fatto di bullismo e lacrime a fiumi: quello della prima media. Il nostro insegnante di educazione musicale, un giorno, venne in classe con uno stereo e una cassetta sulla quale erano incise tre canzoni. Ci chiese di ascoltarle e di scrivere, per ognuna di esse, che cosa ci facessero venire in mente.

La musica faceva già parte della mia vita: penso ai vinili di musica italiana dei miei genitori, alla radio sempre accesa che, fin da piccola, mi aveva fatto scoprire la new wave. Ero innamorata persa dei Righeira, tanto che - alla "veneranda età" di 4 anni - i miei genitori mi portarono a un loro concerto.

Eppure quella mattina fu diversa. Quelle tre canzoni, in quell’aula, con quel compito tra le mani, mi fecero qualcosa. Qualcosa che ancora oggi non so spiegare del tutto, ma che so riconoscere chiaramente: da lì in poi la musica è diventata la mia salvezza. E me ne accorgo solo ora, a distanza di molti anni.

Il primo brano era Caribbean Blue di Enya.
Il secondo era (You Gotta) Fight for Your Right (To Party) dei Beastie Boys.
Il terzo era Locomotive dei Guns N’ Roses.

Ok, forse non necessariamente in quest’ordine.

Il brano di Enya aveva qualcosa di particolare, di mai sentito prima. Quella voce eterea e quella musica che pareva provenire da un altro mondo ebbero su di me l'effetto di una bacchetta magica. C’erano l’atmosfera dei sogni, la voce delle fate, il richiamo a qualcosa che, fino ad allora, aveva vissuto solamente nella mia testa.
Grazie a Enya ho poi conosciuto la musica "celtica" (mi si passi il termine, ma all’epoca si chiamava così!), mi sono avvicinata a Loreena McKennitt e ho percorso il sentiero della musica irlandese.

Il brano dei Beastie Boys, invece, fu spiazzante. Fu il mio primissimo impatto con la musica rap, fatta eccezione per Jovanotti, che però non mi aveva mai conquistata fino in fondo. Questa era proprio tutta un’altra cosa: c’erano irriverenza, rabbia, sfrontatezza, e - pur non capendo un accidente di inglese, con un testo per me assolutamente intraducibile - l’energia che lo permeava mi arrivava forte e chiara.
Spoiler: da allora non ho mai smesso di ascoltare rap.

Locomotive, infine, fu un pugno in faccia. Il nostro prof avrebbe potuto farci ascoltare qualcos’altro, del resto: erano appena usciti i due dischi di Use Your Illusion, che contenevano brani molto più orecchiabili. Non so perché scelse proprio questa, ma so che fu la scelta giusta.
Una canzone lunghissima, intensa, un grido di rabbia che assomigliava tantissimo a quella che sentivo dentro. La dimostrazione che quella rabbia può essere convogliata in altro: non solo nelle lacrime e nella frustrazione, ma soprattutto nella musica, nell’arte.

Da quel giorno, la musica è diventata molto più di una passione: è stata rifugio, cura, linguaggio segreto.
A volte mi chiedo se quel professore sapesse davvero cosa stava facendo, o se fu tutto un caso. So solo che quella mattina, a scuola, mentre fuori il mondo mi faceva sentire sbagliata, io ho scoperto che dentro di me era nato un posto sicuro. E quel posto suonava fortissimo.

martedì 30 settembre 2025

E tu come fai a sapere il romeno?

Questa domanda mi è stata posta spesso, non solo da persone italiane, ma anche da romeni e moldavi. 

Non è facile spiegarlo in poche parole, perciò a volte mi ritrovo a dover rispondere con un riduttivo “perché la trovo affascinante”.
In realtà, la strada che mi ha portata fin qui è stata lunga e affonda le sue radici in una mattina primaverile laziale del 2009.

All'epoca mi trovavo spesso ospite a casa di universitari che avevano come coinquilini due ragazzi rumeni: grandi appassionati di birre imbevibili, instancabili lavoratori, un po’ pasticcioni e dal cuore immensamente grande.
Li ascoltavo parlare tra loro e mi rendevo conto di capire abbastanza bene di cosa stessero parlando. Inoltre, lasciavano spesso in giro per casa alcune riviste scritte in rumeno, e mi divertivo a cercare di tradurre quel che c’era scritto.
Ai tempi non c’era mica Google Lens per fotografare le scritte e tradurle in automatico: dovevi chiedere. E così ho iniziato a chiedere.

Uno dei ragazzi, che per privacy e praticità chiameremo Andrei, stava ascoltando un disco di musica popolare rumena, che aveva una forte assonanza col liscio nostrano.
Ho preso la copertina del disco tra le mani e gli ho chiesto: «Mi tradurresti il titolo di queste canzoni?».
Lui, con un sorrisone, mi ha risposto: «Dai, prova a indovinarli tu intanto».

Romania | Traditional Romanian Clothing | silviafloareatoth

 Ne ho azzeccati circa la metà.
Il resto me l’ha spiegato Andrei, raccontandomi che quel tipo di musica era molto popolare nella zona in cui viveva, un paesino rurale dove alcuni ancora si spostano a cavallo, con il biroccino.
Ha iniziato a raccontarmi il suo mondo, quello che aveva lasciato per potersi permettere un lavoro sicuro qui in Italia - e che, per certi versi, mi sembrava uscito da un’antica leggenda o da un vecchio libro di favole.

È stato lì che il mio cuoricino ha iniziato a battere forte.
Non per Andrei, ma per il suo paese.

Ho iniziato cercando qualche corso gratuito di lingua romena online, e da lì mi ci sono buttata a capofitto, in un’avventura di cui nemmeno io conoscevo la destinazione.
Sapevo solo una cosa: che avrei potuto davvero capire quel paese soltanto imparandone la lingua. Solo così avrei avuto accesso diretto alle risorse che mi interessavano, senza dovermi affidare alle grossolane (e spesso fuorvianti) traduzioni di Google.

Volevo capire meglio la Romania. Conoscerne la musica, le tradizioni, le leggende, i racconti popolari e le radici pagane.
Pochi anni prima avevo letto alcuni testi di Marija Gimbutas, in cui l’antropologa raccontava della nascita delle culture matriarcali proprio in Romania, nella civiltà di Cucuteni. Sentivo il bisogno di saperne di più.

Era come un richiamo fortissimo.
Lo stesso che provo per la mia amata Irlanda.
E per la Sardegna - anche se, in quel caso, per ovvi motivi: porto un cognome sardo.

Pur sapendo che, per me, un viaggio verso quelle terre potrebbe rimanere soltanto un sogno (mancanza di pecunia e di giorni liberi in primis), quel legame resta forte.
È una voce arcana e distante, una lettera scritta da mani sconosciute, che odora di boschi, caminetti accesi e pietre antiche.

C’è un elemento naturale che associo istintivamente alla Romania, ed è la terra.
Penso ai Carpazi, ai monti Măci, alle miniere, alle antiche foreste e alle pietre con cui sono stati costruiti i suoi meravigliosi castelli.

Il Castello di Bran, foto recuperata su Pinterest

A proposito di castelli: la prima cosa che un appassionato di storia romena o di folklore dovrebbe sapere è che il castello di Bran non ha nulla a che vedere con Dracula e con le atmosfere vampiresche tanto care a Stoker.
Oggi ospita un interessante museo dedicato alla regina Maria di Romania.

Ma poiché il marketing ha le sue leggi - alle quali noi comuni mortali ci sottoponiamo, peraltro, con sommo piacere - negli ultimi anni è stata aggiunta al castello anche una sezione dedicata ai vampiri, alle torture e a tutto ciò che è commercialmente acchiappa-turisti.

Ne parlerò ancora della mia amata Romania. Forse anche prima del previsto.