In un mio vecchio post avevo parlato di un radiodramma a me molto caro: quello di Piccole Donne.
Con l’arrivo della stagione fredda, sento sempre più spesso il bisogno di spegnere il mondo e mettermi ad ascoltare un po’ di teatro radiofonico quando la mattina o la sera esco per fare una passeggiata con il mio pelosone. Quelle voci mi fanno compagnia, mi cullano come una fiaba, ma allo stesso tempo riescono a creare mondi meravigliosi, solo attraverso il suono.
Oggi vanno molto di moda i podcast, e proprio grazie a questo formato mi sono imbattuta in una serie di radiodrammi moderni: storie fantasy curate con grande attenzione, sia a livello interpretativo, sia nella scrittura che nella colonna sonora.
Si tratta della saga di Hellwinter, a cura di Andrea Tupac Mollica.
Ne parlerò più approfonditamente prossimamente, ma oggi vorrei spendere due parole sul radiodramma in generale.
Il "teatro alla radio" nasce indicativamente nella prima metà degli anni ’20, nel Regno Unito. Uno dei primi radiodrammi fu Danger, del 1924. Ambientato in una miniera, fu ideato per mostrare le potenzialità emotive della comunicazione via radio.
L’Italia arrivò subito dopo: una delle prime trasmissioni di prosa radiofonica (ovvero adattamenti teatrali creati esclusivamente per la radio) fu Venerdì 13 di Mario Vigliano, trasmessa il 18 gennaio 1927 dalla sede di Milano dell’EIAR.
Il primo vero radiodramma originale italiano, però, fu L’Anello di Teodosio di Luigi Chiarelli, andato in onda per la prima volta il 6 ottobre del 1929.
A seguito di queste prime sperimentazioni, che proseguirono anche nel decennio successivo, fu dopo la Seconda guerra mondiale che l’Italia visse il suo periodo d’oro, in particolar modo tra gli anni ’50 e ’70.
In quegli anni fu possibile raggiungere un pubblico più ampio grazie a una notevole qualità artistica, che attingeva a piene mani dal teatro e dalle sue nuove contaminazioni.
![]() |
| Foto recuperata da Pinterest |
Purtroppo, l’avvento della televisione portò a un progressivo calo degli ascolti radiofonici, relegando il radiodramma a un ruolo sempre più marginale nel panorama culturale italiano.
Fortunatamente, al giorno d’oggi esistono reti culturali - come, ad esempio, Radiotre - che mantengono vivo questo genere, il quale, come dicevo all’inizio, sembra tornare a godere di buona salute anche grazie all’avvento dei podcast.
Perché il radiodramma continua ad avere un impatto così forte su di noi?
Credo che agisca proprio su uno stimolo che la sovraesposizione alla tecnologia sta lentamente anestetizzando: il non vedere, il dover immaginare.
Sentiamo le voci, i suoni, ma non possiamo vedere nulla se non con gli occhi dell’immaginazione. E il non poter vedere, in una società completamente basata sull’immagine, è spiazzante. Quasi quanto lo fu per i primi ascoltatori degli anni ’20, quando per la prima volta una storia veniva raccontata in modo nuovo: reale, ma allo stesso tempo così intangibile.
Oggi abbiamo la possibilità di accedere a molte più risorse, non solo come ascoltatori, ma anche come creatori di radiodrammi.
Senza tirare in ballo l’intelligenza artificiale (utile, certo, per la pulizia del suono, ma non per la creazione vera e propria, come purtroppo sta accadendo nella musica e nell’arte figurativa), esistono nuove opportunità da considerare: strumentazioni più accessibili, software gratuiti, ambienti collaborativi, piattaforme di distribuzione immediata.
In un’epoca in cui tutti cercano di farsi vedere, forse è proprio il raccontare senza mostrarsi a restituirci qualcosa che avevamo dimenticato: prestare attenzione a ciò che ascoltiamo. rad

Nessun commento:
Posta un commento