giovedì 2 ottobre 2025

Le leggende urbane degli anni 80

Noi che siamo stati bambini negli anni ’80 (ma anche negli anni ’90) abbiamo avuto un’infanzia abbastanza traumatica.
All’epoca le nostre giornate trascorse in cortile o a casa di amici - ma ancor meglio le sere d’estate all’imbrunire, sotto l’occhio vigile delle vicine di casa che facevano filò - finivano spesso con l’immancabile domanda:
“Sapete che cosa è successo a un mio amico in vacanza lo scorso anno?”

In effetti erano sempre amici, cugini o zii i protagonisti e testimoni delle situazioni più bislacche.
A volte si trattava davvero di fatti realmente accaduti, e lo capivi subito: erano divertenti, e non c’era alcuna componente horror.
Altre volte, invece, l’alone di mistero calava come una scure e ti mozzava il respiro.

Ricordo che la leggenda urbana che andava più di moda era quella della bambina pallida e vestita di bianco che bussava alla porta di casa (per lo più case di montagna o case vacanza) per chiedere un bicchiere di latte.
Quando il malcapitato rientrava in casa per prenderlo e tornava all’ingresso per porgerglielo, la bambina era sparita.
Il giorno dopo, per motivi mai del tutto chiariti, si scopriva che la bambina altro non era che un fantasma.

Immagine Pin Storia
Fotografia recuperata da Pinterest

 Ma la leggenda che preferivo - e sulla quale, poi, ho scoperto sussistere un fondo di verità - era quella legata a una villa che si trovava a pochi chilometri da dove vivevo.

Sperduta (ma non troppo) in mezzo alle campagne emiliane, veniva chiamata Villa Mastella (non era il suo vero nome, ma questo l’ho scoperto solo in tempi abbastanza recenti).
I più avventurosi, nei primi anni ’90, organizzavano veri e propri pellegrinaggi in bicicletta, cercando di avvicinarsi il più possibile e sbirciando dalle finestre per scoprire qualche mistero.
Si diceva che ci fossero i fantasmi, ma nessuno ne aveva mai visto veramente uno. Poi, qualcuno iniziò a dire di aver visto qualcosa...
Non fantasmi, ma quadri molto strani. Guardando da una finestra, infatti, aveva notato dei dipinti appesi alle pareti che rappresentavano il diavolo in persona.
Non esistono però prove fotografiche di quanto riportato dal nostro Indiana Jones dell’epoca, quindi dobbiamo attenerci esclusivamente alla sua testimonianza.

Dalle mie parti, la leggenda dell’autostoppista fantasma è arrivata dopo, verso la fine degli anni ’90.
Ce la raccontavamo alle superiori, sussurrandoci i dettagli più raccapriccianti durante la ricreazione o disegnando i momenti salienti sui nostri diari.
Così come, del resto, che in America i coccodrilli venissero fuori dalla doccia, l’ho scoperto solo grazie a Samuele Bersani.
Per me, al massimo, nelle fogne ci vivevano le Tartarughe Ninja con il buon vecchio Splinter.

Chissà quanto ci fosse di vero in tutte queste leggende, e quanto invece fosse solo frutto dell’immaginazione di qualche amico a cui piaceva avere i suoi cinque minuti di gloria raccontando cose assurde.
Un po’ come quel mio compagno delle elementari che mi disse di aver trovato uno zombie nel baule dell’auto dei suoi genitori mentre tornavano dall’Olanda.
Che già per me, l’Olanda era un luogo mitico, inarrivabile, dall’altra parte del mondo — e quindi, di per sé, pieno di misteri...
Ma ammetto che, dopo il primo brivido, mi resi conto che si trattava di una panzana colossale. Lui stesso, a dire il vero, non sembrava troppo convinto.

Oggi, sempre più presto, i bambini si ritrovano tra le mani uno smartphone e hanno accesso a tutto lo scibile del web.
Manca, a mio avviso, quell’alone di magia che da piccoli ci permetteva di credere a queste leggende, di fidarci dell’amico che ce le raccontava, anche senza video o fotografie a supporto.
E poi, diciamocelo: quelle poche immagini che giravano erano sempre sfocate, e lasciavano tantissimo spazio all’immaginazione o al classico “ma va là, non si vede niente!”

Forse dovremmo essere noi adulti a ristabilire un po’ l’equilibrio.
A lasciare che la fantasia corra, ogni tanto. A non farci inghiottire del tutto dal “tutto e subito” del web.
Perché quella magia — quella che non ha bisogno di prove fotografiche a tutti i costi —
io credo che i nostri figli e i nostri nipoti se la meritino.

mercoledì 1 ottobre 2025

Le 3 canzoni che mi hanno salvato l'adolescenza (e forse anche la vita).

A me l’adolescenza l’hanno salvata due cose: i miei amici di penna (poiché non avevo veri amici attorno a me) e la musica. Oggi vorrei parlare della musica, e in special modo delle tre canzoni che mi hanno salvato l’adolescenza.

Immagine proveniente da Pinterest

Le ricollego a un periodo non propriamente felice, fatto di bullismo e lacrime a fiumi: quello della prima media. Il nostro insegnante di educazione musicale, un giorno, venne in classe con uno stereo e una cassetta sulla quale erano incise tre canzoni. Ci chiese di ascoltarle e di scrivere, per ognuna di esse, che cosa ci facessero venire in mente.

La musica faceva già parte della mia vita: penso ai vinili di musica italiana dei miei genitori, alla radio sempre accesa che, fin da piccola, mi aveva fatto scoprire la new wave. Ero innamorata persa dei Righeira, tanto che - alla "veneranda età" di 4 anni - i miei genitori mi portarono a un loro concerto.

Eppure quella mattina fu diversa. Quelle tre canzoni, in quell’aula, con quel compito tra le mani, mi fecero qualcosa. Qualcosa che ancora oggi non so spiegare del tutto, ma che so riconoscere chiaramente: da lì in poi la musica è diventata la mia salvezza. E me ne accorgo solo ora, a distanza di molti anni.

Il primo brano era Caribbean Blue di Enya.
Il secondo era (You Gotta) Fight for Your Right (To Party) dei Beastie Boys.
Il terzo era Locomotive dei Guns N’ Roses.

Ok, forse non necessariamente in quest’ordine.

Il brano di Enya aveva qualcosa di particolare, di mai sentito prima. Quella voce eterea e quella musica che pareva provenire da un altro mondo ebbero su di me l'effetto di una bacchetta magica. C’erano l’atmosfera dei sogni, la voce delle fate, il richiamo a qualcosa che, fino ad allora, aveva vissuto solamente nella mia testa.
Grazie a Enya ho poi conosciuto la musica "celtica" (mi si passi il termine, ma all’epoca si chiamava così!), mi sono avvicinata a Loreena McKennitt e ho percorso il sentiero della musica irlandese.

Il brano dei Beastie Boys, invece, fu spiazzante. Fu il mio primissimo impatto con la musica rap, fatta eccezione per Jovanotti, che però non mi aveva mai conquistata fino in fondo. Questa era proprio tutta un’altra cosa: c’erano irriverenza, rabbia, sfrontatezza, e - pur non capendo un accidente di inglese, con un testo per me assolutamente intraducibile - l’energia che lo permeava mi arrivava forte e chiara.
Spoiler: da allora non ho mai smesso di ascoltare rap.

Locomotive, infine, fu un pugno in faccia. Il nostro prof avrebbe potuto farci ascoltare qualcos’altro, del resto: erano appena usciti i due dischi di Use Your Illusion, che contenevano brani molto più orecchiabili. Non so perché scelse proprio questa, ma so che fu la scelta giusta.
Una canzone lunghissima, intensa, un grido di rabbia che assomigliava tantissimo a quella che sentivo dentro. La dimostrazione che quella rabbia può essere convogliata in altro: non solo nelle lacrime e nella frustrazione, ma soprattutto nella musica, nell’arte.

Da quel giorno, la musica è diventata molto più di una passione: è stata rifugio, cura, linguaggio segreto.
A volte mi chiedo se quel professore sapesse davvero cosa stava facendo, o se fu tutto un caso. So solo che quella mattina, a scuola, mentre fuori il mondo mi faceva sentire sbagliata, io ho scoperto che dentro di me era nato un posto sicuro. E quel posto suonava fortissimo.