martedì 30 settembre 2025

E tu come fai a sapere il romeno?

Questa domanda mi è stata posta spesso, non solo da persone italiane, ma anche da romeni e moldavi. 

Non è facile spiegarlo in poche parole, perciò a volte mi ritrovo a dover rispondere con un riduttivo “perché la trovo affascinante”.
In realtà, la strada che mi ha portata fin qui è stata lunga e affonda le sue radici in una mattina primaverile laziale del 2009.

All'epoca mi trovavo spesso ospite a casa di universitari che avevano come coinquilini due ragazzi rumeni: grandi appassionati di birre imbevibili, instancabili lavoratori, un po’ pasticcioni e dal cuore immensamente grande.
Li ascoltavo parlare tra loro e mi rendevo conto di capire abbastanza bene di cosa stessero parlando. Inoltre, lasciavano spesso in giro per casa alcune riviste scritte in rumeno, e mi divertivo a cercare di tradurre quel che c’era scritto.
Ai tempi non c’era mica Google Lens per fotografare le scritte e tradurle in automatico: dovevi chiedere. E così ho iniziato a chiedere.

Uno dei ragazzi, che per privacy e praticità chiameremo Andrei, stava ascoltando un disco di musica popolare rumena, che aveva una forte assonanza col liscio nostrano.
Ho preso la copertina del disco tra le mani e gli ho chiesto: «Mi tradurresti il titolo di queste canzoni?».
Lui, con un sorrisone, mi ha risposto: «Dai, prova a indovinarli tu intanto».

Romania | Traditional Romanian Clothing | silviafloareatoth

 Ne ho azzeccati circa la metà.
Il resto me l’ha spiegato Andrei, raccontandomi che quel tipo di musica era molto popolare nella zona in cui viveva, un paesino rurale dove alcuni ancora si spostano a cavallo, con il biroccino.
Ha iniziato a raccontarmi il suo mondo, quello che aveva lasciato per potersi permettere un lavoro sicuro qui in Italia - e che, per certi versi, mi sembrava uscito da un’antica leggenda o da un vecchio libro di favole.

È stato lì che il mio cuoricino ha iniziato a battere forte.
Non per Andrei, ma per il suo paese.

Ho iniziato cercando qualche corso gratuito di lingua romena online, e da lì mi ci sono buttata a capofitto, in un’avventura di cui nemmeno io conoscevo la destinazione.
Sapevo solo una cosa: che avrei potuto davvero capire quel paese soltanto imparandone la lingua. Solo così avrei avuto accesso diretto alle risorse che mi interessavano, senza dovermi affidare alle grossolane (e spesso fuorvianti) traduzioni di Google.

Volevo capire meglio la Romania. Conoscerne la musica, le tradizioni, le leggende, i racconti popolari e le radici pagane.
Pochi anni prima avevo letto alcuni testi di Marija Gimbutas, in cui l’antropologa raccontava della nascita delle culture matriarcali proprio in Romania, nella civiltà di Cucuteni. Sentivo il bisogno di saperne di più.

Era come un richiamo fortissimo.
Lo stesso che provo per la mia amata Irlanda.
E per la Sardegna - anche se, in quel caso, per ovvi motivi: porto un cognome sardo.

Pur sapendo che, per me, un viaggio verso quelle terre potrebbe rimanere soltanto un sogno (mancanza di pecunia e di giorni liberi in primis), quel legame resta forte.
È una voce arcana e distante, una lettera scritta da mani sconosciute, che odora di boschi, caminetti accesi e pietre antiche.

C’è un elemento naturale che associo istintivamente alla Romania, ed è la terra.
Penso ai Carpazi, ai monti Măci, alle miniere, alle antiche foreste e alle pietre con cui sono stati costruiti i suoi meravigliosi castelli.

Il Castello di Bran, foto recuperata su Pinterest

A proposito di castelli: la prima cosa che un appassionato di storia romena o di folklore dovrebbe sapere è che il castello di Bran non ha nulla a che vedere con Dracula e con le atmosfere vampiresche tanto care a Stoker.
Oggi ospita un interessante museo dedicato alla regina Maria di Romania.

Ma poiché il marketing ha le sue leggi - alle quali noi comuni mortali ci sottoponiamo, peraltro, con sommo piacere - negli ultimi anni è stata aggiunta al castello anche una sezione dedicata ai vampiri, alle torture e a tutto ciò che è commercialmente acchiappa-turisti.

Ne parlerò ancora della mia amata Romania. Forse anche prima del previsto.  

giovedì 25 settembre 2025

Se potessi scrivere un libro (e perchè non lo faccio)

Siamo arrivati al punto in cui chiunque può scrivere un libro e pubblicarlo. Da una parte, ciò è entusiasmante, se pensiamo che anche solo pochi decenni fa questo sarebbe parso impossibile - oserei dire distopico. Oggi abbiamo tutti gli strumenti che ci permettono di far conoscere agli altri i nostri racconti, le nostre poesie, i nostri pensieri messi a nudo su un foglio - di carta o virtuale.

Dall’altra parte, però, stiamo assistendo a un fenomeno difficile da digerire: una saturazione non indifferente del mercato e un numero sempre più alto di scrittori wannabe che pubblicano scritti pieni di strafalcioni, orrori grammaticali e altre simili impudicizie.

La prima volta che ho letto un libro e ho pensato: Anche a me piacerebbe scrivere qualcosa del genere! si perde nella notte dei tempi.
Potrebbe essere stato Pattini d’argento, Cuore, I ragazzi della via Pál... o anche La piccola scopa di Mary Stewart.
O forse tutti e quattro, in quattro momenti distinti della mia vita.

Immagine Pin Storia 

Il punto è che, tutt’oggi, continua ad accadermi. Finisco la lettura di un romanzo, lo chiudo, me lo rigiro tra le mani, ne annuso le pagine per l’ultima volta prima di riporlo sul suo scaffale… e penso che, porca miseria, se solo sapessi scrivere!

Ho un mondo, in testa, che vive letteralmente per conto proprio, e al quale, a volte, ho davvero cercato di dare una voce, un’immagine, una collocazione.

In passato ho scritto diversi racconti. Esercizi di stile, per lo più.
A volte osservavo una cartolina e mettevo su carta le creature che, nella mia testa, popolavano quello scorcio. Altre volte prendevo spunto da piccoli fatti realmente accaduti a me: li romanzavo un po’, a volte li stravolgevo completamente.
Li ho fatti leggere, a suo tempo, ad alcuni miei amici di penna, i quali mi avevano anche fatto un sacco di complimenti.
Ma, siccome “ogni scarrafone è bell' a mamma soja”, non posso certo ritenere imparziali né i loro giudizi né i miei (ammetto che, a distanza di tempo, rileggere alcuni di quegli scritti salvati su un vecchio hard disk - sopravvissuti al passaggio dal floppy fino ad oggi - mi ha fatto pensare che, tutto sommato, non facessero poi così schifo).

Ho anche provato a scrivere un romanzo.
Anzi, due, per l’esattezza.

Il primo risale ai primi anni 2000: un romanzo breve, che iniziava anche discretamente, ma che a metà ha improvvisamente risentito della cosiddetta crisi dello scrittore.
Ho voluto comunque concluderlo, con il risultato che la prima parte è anche decente, mentre il finale fa schifo ai maiali. Con tutto il rispetto per queste meravigliose creature (un giorno vi racconterò di quando ho fatto le coccole a un maialino di nome Timo).

Il secondo l’ho iniziato in un periodo un po’ particolare della mia vita, circa dodici anni fa.
Ero a Udine, in cerca di un lavoro, di una svolta.
Passavo le serate in cui non ero fuori a ber… ehm, con gli amici, giocando di ruolo online e provando a mettere in forma romanzata la storia di origine del mio personaggio: un’erborista che vive in una sorta di medioevo fantasy.

 

Ho scritto il primo capitolo.
L’ho riscritto più e più volte.
E poi mi sono bloccata.
E non l’ho più ripreso in mano, perché la vita è andata avanti, mentre io sono tornata indietro. A casa mia.
Lasciando la mia cara Udine, in cui è rimasto molto più che un pezzetto del mio cuore.

Quel capitolo l’ho riletto qualche settimana fa, ritrovandolo dopo averlo dato per disperso nell’ennesima esplosione del mio ultimo computer.
Cavolo, è davvero bello.

Mi piacerebbe davvero tanto continuarlo.
Il problema è che non riesco.

Non è la mancanza di tempo.
Non è la paura di sbagliare: sto imparando, alla mia veneranda età, che è giusto e sacrosanto scrivere anche solo per sé stessi, senza dover per forza condividerlo con ampie cerchie di persone, come i social ci hanno ormai abituati.
Non è nemmeno l’incertezza sul genere letterario (fantasy? storico? adolescenziale? horror? epistolare?).

Ve lo dico io qual è il punto.
Ho pietà per le mie povere creature. 

So iniziare qualcosa, e a volte ci riesco particolarmente bene, ma non riesco a portare a termine nulla.
Io, le porte, le ho sempre lasciate aperte: non sono mai stata capace di chiuderle.
E così tutto rimane lì, in sospeso, con personaggi che stanno per compiere un’azione… e restano fermi.
Per giorni, mesi, anni.

Non me la sento di condannarli a questo destino.
Loro, che avrebbero tanto da dire, da fare, da vivere!
Nella migliore delle ipotesi sarebbero destinati all’immobilità perenne; nella peggiore, a fare la squallida fine della mia protagonista de La finestra sul mare (sì, aveva anche un nome, quell’abominio!).

Se potessi scrivere un libro - uno solo - darei sicuramente una chance alla storia della mia erborista.
Ma non lo pubblicherei. O, quantomeno, non avrei la presunzione di farlo.

 

Il lavoro di uno scrittore è difficile: richiede una padronanza lessicale che a me manca, una fantasia che - nel mio caso - si è andata affievolendo notevolmente negli ultimi quindici anni, e una disponibilità economica che io non avrò nemmeno tra cent’anni.

Lo faccio per riguardo verso chi lavora seriamente in questo campo - scrittori, editor, case editrici, illustratori di copertine - e verso chi scrive davvero bene, usando tutti i mezzi a propria disposizione per pubblicare opere che rispettano i futuri lettori, e che mettono nelle loro mani un prodotto di qualità.
Non un ammasso di parole in cui la h nel verbo avere non è mai contemplata.

Ho comunque intenzione di non abbandonare la scrittura “in forma breve”.
A inizio settembre sono tornata a casa da una breve vacanza sull’Appennino con un bel po' di note scritte sul cellulare: appunti, ritratti di persone incrociate lungo il cammino, profumi, sensazioni.

Non so se ne farò delle canzoni (in un caso lo vedo molto probabile), delle poesie o dei piccoli ritratti scritti — non li chiamo racconti, perché davvero non posso definirli tali.
Sono come i fotogrammi di un film, fotografie, battiti di cuore e di palpebre.

E poi, forse, qualcosa finirà anche qui sul blog. Senza pretese. 
Solo per ricordare.