martedì 11 settembre 2018

Ai miei tempi non si chiamava urbex

Mi sono appassionata di urbex prima ancora che questo iniziasse a chiamarsi tale e ad andar di moda. Noi ragazzini di paese, cresciuti in mezzo ai campi ed abituati a vedere case e fienili abbandonati, eravamo soliti raccontarci storie "di paura" legate a quei luoghi. I più coraggiosi ci si avvicinavano oppure tentavano l'intrusione, i più fifoni si limitavano ad ascoltarne i resoconti che, nemmeno a dirlo, risultavano farciti di elementi inquietanti inseriti ad hoc dagli esploratori urbani del secolo scorso. Ho cercato per anni una villa chiamata "Villa Mastella" situata sulla strada che da Poggio Renatico porta a Madonna Boschi e in cui i miei amici e compagni di classe dichiaravano di aver visto appesi alle pareti inquietanti dipinti, tanto da essersi meritata il soprannome di "Villa del diavolo". Non v'è traccia di un luogo simile nemmeno scartabellando tra i polverosi tomi della biblioteca comunale quindi o qualcuno l'ha sparata davvero grossa oppure... Ragazzi, se leggete queste righe battete un colpo e spiegatemi dove caspita devo andare!

In fondo alla via in cui sono cresciuta e vivo tutt'ora, ai tempi vi erano due attrazioni principali in proposito: una porzione di casa abbandonata, che noi chiamavamo "la casa della vecchia", e il casotto ormai in disuso in cui in tempi passati erano state costruite le latrine esterne alle abitazioni. 
Io facevo parte della categoria "coraggiosi ma non troppo" e non tanto per paura d'imbattermi in mostri, fantasmi o demoni, quanto per il timore reverenziale nutrito verso la ciabatta di mia madre (la quale non ha mai avuto un piedino di fata... Ecco da chi ho preso!). Mi avvicinavo con curiosità alla casa della vecchia - così chiamata perchè l'ultima persona a viverci fu una signora anziana - e cercavo di scrutare all'interno utilizzando una finestra socchiusa a piano terra. Non si vedeva un granchè. Con la prima macchina fotografica usa e getta della mia vita sono riuscita a fotografare in parte ciò che era una sala da pranzo o qualcosa di simile. Ricordo solo ragnatele, un vecchio calendario e odore di chiuso. A Ferrara lo chiamiamo "umadghin" o, meno prosaicamente, "puza da sarà" (puzza di luogo chiuso).
Con meno timori ci avventuravamo ai Cessi, dal momento che le porte erano chiuse con un catenaccio a scorrimento e due di esse non avevano il lucchetto. Diventati un ripostiglio per gli strumenti da giardino come vanghe, rastrelli ed innaffiatoi, in quei loculi erano ancora presenti i maleodoranti buchi all'interno dei quali venivano espletati i propri bisogni. Il nostro preferito era quello in cui ancora, al centro, stava appoggiata una sedia impagliata col suo bel buco al centro, ingegnoso espediente per rendere la cacata più comoda. 

Con il trascorrere degli anni e, di conseguenza, con la possibilità di esplorare autonomamente anche il mondo al di fuori del vicinato, ho scrutato all'interno di altre costruzioni, spesso riuscendo a varcarne la porta. Quel che mi porta a farlo non è il gusto per il proibito, bensì l'assaporare quella sensazione di tempo che si è fermato. E' qualcosa che non si può descrivere a parole. 

Mi rendo conto, purtroppo, che la maggior parte delle persone che, al giorno d'oggi, si dichiara appassionata di Urbex lo fa soltanto per scattare foto da pubblicare sui social per ottenere like e visibilità. Oppure c'è chi va per deturpare quei luoghi silenziosi e solitari, riempiendo i muri di scritte, appiccando fuochi e via discorrendo. 
E poi mi chiedono come mai io sia diventata così misantropa. SPUT SPUT. 

(Foto scattata da me durante un'esplorazione piena di soddisfazioni!)


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